L’EREDITÀ INVISIBILE
L’Africa di oggi ha preservato la propria identità molto più di quanto ci si aspetterebbe da chi ha subito per secoli pressioni insopportabili e violenze brutali.
Al di là delle apparenze e della presunta fragilità, il mosaico delle antiche culture orali che si svilupparono nel ventre delle antiche civiltà africane sono sopravvissuti riparandosi in piccoli villaggi lontani dalla costa e dai caotici golem metropolitani, ma anche in reti pervasive e immateriali costituite da relazioni impalpabili.
Ciò è potuto avvenire anche grazie alla loro “invisibilità”, dovuta non solo a elementi esterni quali l’asprezza del territorio, l’assenza di scrittura o la numerosità dei linguaggi e dialetti locali, ma anche per ragioni culturali, quali la flessibilità nel saper rimappare i propri simboli in quelli del cristianesimo e dell’islam e – non ultima – la straordinaria attitudine africana alla riservatezza. Per questo chi voglia esplorare quei mondi così differenti e accedere a quell’eredità invisibile, per riuscire a percorrere i sentieri di senso celati dietro a segni spesso intraducibili dovrà disporre di qualcuno che lo guidi dall’interno.
La storia narrata nell’opera Regard sur le Passé è un sentiero attraverso la foresta, un tesoro custodito con cura da guardiani accorti. Il contesto in cui si svolge la narrazione è l’impero mandingo (mandè, manden, mandingue, malinkè), fondato nel XIII° secolo sulle rive del fiume Niger grazie al re dei re Soundjata Keita, che unificò molte tribù in una confederazione di regni estesa geograficamente agli attuali stati di Mali, Guinea Conakry, Gambia, Senegal, Mauritania, Guinea Bissau, Sierra Leone, Liberia, Burkina Faso e parte del Niger e della Costa d’Avorio.
I mandingo hanno saputo creare nel tempo una società ordinata fondata su cultura, coraggio, magia e bellezza, che ancora oggi ispira la sua gente con i racconti delle gesta dei suoi saggi e degli eroi. La storia dell’impero mandingo e dei suoi figli viene tramandata oralmente dalle famiglie appartenenti alla casta dei griot. I djeli – come li chiamano nella lingua malinkè – sono guide, porte di accesso alle stanze del tesoro.
UNA RETE DI PAROLE
Il djeliya – o griottismo – è una di quelle reti fragili che connettono le genti e alimentano l’immaginario collettivo degli africani. Djeli vuol dire il sangue che scorre nelle vene. “Se l’Africa mandinga fosse una persona – dice il grande griot maliano Toumani Diabate – i djeli ne costituirebbero il sangue, attraverso cui la cultura orale circola e viene trasmessa alla discendenza, dai genitori ai figli. Essi sono gli ambasciatori della loro cultura, i guardiani della tradizione e della storia. Djeli si nasce, non lo si può diventare. Puoi essere un buon musicista, ma essere un djeli è un’altra cosa, è una questione legata alla famiglia e alla storia di un popolo.”
Il djeliya è la conoscenza delle storie e la capacità di raccontarle nei tempi e nei modi appropriati secondo specifici criteri estetici e di stile, intesi non solo come forma e rigore del racconto, ma anche come poetica delle parole, dei suoni e delle intonazioni, o come arte del contrappunto attraverso aneddoti, detti popolari, sberleffi e ammiccamenti.
Un griot è considerato maestro della parola e custode di antichi segreti, abile nel raccontare e nel tacere, o anche nel dire parlando d’altro. Come spiega un antico proverbio, “l’uomo è il padrone della parola che conserva nella sua pancia, ma diventa schiavo della parola che lascia fuggire dalla sua bocca”.
Padroneggiando la parola e tutti i saperi che sono a supporto della comunicazione, i djeli sono anche i custodi della musica e della fabbricazione degli strumenti musicali. Ma nonostante molti di loro siano famosi e straordinari musicisti, i djeli non si definiscono musicisti, perché nel loro caso la musica è al servizio della parola, e a volte – addirittura – può farne le veci. Essendo musica e parole perfettamente integrati con la coscienza collettiva di quella società, quando un djeli si esibisce per la sua gente è in grado di scuotere i corpi e le menti, di provocare il pianto e il riso, di indurre la gioia e la speranza ma anche la rabbia e l’indignazione.
Comprendere il significato e l’importanza della parola detta in una società originariamente senza scrittura richiede lo sforzo di uscire dal proprio sistema simbolico e di immaginare un mondo che poggi su basi differenti. la parola – intesa come suono, oltre che come discorso – connette gli esseri umani attraverso l’aria nelle dimensioni di spazio e tempo, e chi gestisce la parola influenza gli eventi. Un buon “urlatore” – ad esempio – riesce a farsi ascoltare nelle grandi assemblee, per questo sta al fianco e parla a nome del re. Chi conosce l’arte del parlare può creare la pace o provocare la guerra, tra individui, famiglie e persino tra popoli. Un djeli possiede poteri che altri non hanno.
Awa Diabate, una griot maliana discendente da uno dei lignaggi più nobili e antichi, spiega che l’essenza del djeliya è il suo essere una funzione sociale, non un mestiere per far soldi. “Un matrimonio non diviene dolce senza un djeli, la fraternità non può mantenersi forte senza i djeli, e lo stesso è per la convivenza tra le genti.”
MUSICA E IDENTITÀ
A partire dalla fine degli anni ’50 le nazioni africane ottennero finalmente l’indipendenza una dopo l’altra, come in una staffetta. In un’Africa provata da decenni di prevaricazione economica, politica e pedagogica – gli africani imparavano a scuola la superiorità della civiltà dei loro dispotici invasori – i griot assunsero un ruolo determinante nella ricostruzione dell’identità di quei popoli, dando una forma all’entusiasmo e una direzione alla speranza.
Uno degli esempi più straordinari di quel fenomeno fu la Guinea Conakry, che conquistò l’indipendenza nel 1958. Tra le prime iniziative del primo presidente Sekou Toure ci fu l’avvio del programma Authenticité, che incardinava sulla musica dei griot la rinascita culturale del paese e la ricostruzione di una fierezza calpestata.
Furono fondate sei orchestre nazionali e ben trentacinque tra ensemble e orchestre regionali, tutte finanziate dallo Stato e incoraggiate per oltre due decenni a reinterpretare i classici della musica malinkè al fine di diffondere la conoscenza della storia e delle antiche radici, in modo da favorire lo sviluppo di una nuova identità culturale africana.
“Il colonialismo, per giustificare il suo operato, ha dipinto i leader precedenti alla loro dominazione come re sanguinari e malvagi, ma, attraverso la notte dei tempi, la loro storia ci è stata tramandata in tutta la sua gloria.” Sono le parole dei Bembeya Jazz National, la più famosa e amata tra le orchestre nazionali di Guinea.
Nel 1969 i Bembeya Jazz arrangiarono Regard sur le Passé, un adattamento moderno dell’epica tradizionale Keme Bourema, che narra la storia di Samory Toure, ultimo imperatore mandingo, eroe della resistenza alla colonizzazione francese durante gli ultimi anni dell’800 e – particolare non di poco conto – presunto antenato del presidente Sekou Toure.
Il brano si fonda sulla fusione di due mondi e due linguaggi. Costruito nel puro stile dei djeli, è cantato in malinkè da Aboubacar Demba Camara e narrato in francese. E’ suonato con strumenti di origine europea quali chitarra, batteria, sassofono e tromba, ma la linea melodica principale è affidata al balafon – lo xilofono tradizionale mandingo – del grande virtuoso Djeli Sory Kouyate.
Interpretato da una ricostituita Syli Orchestre National – la prima orchestra nazionale guineiana ormai sciolta – Regard sur le Passé vinse la medaglia d’argento al primo Festival Pan-Africano tenutosi ad Algeri nel 1969, estendendo la fama dei Bembeya Jazz e della musica guineiana in tutto il continente africano. Nel 1970 il lungo brano fu pubblicato dalla Syliphone (SLP10) – l’etichetta discografica di stato – lasciando una traccia che ancora oggi rappresenta una delle registrazioni musicali più rappresentative delle antiche epopee dei mandingo, al pari di Soundjata della Rail Band di Mory Kante e di Koulandjan di Kasse Mady Diabate.
Samory Toure (1830-1900) fu senz’altro una figura complessa, che suscitò tra i suoi contemporanei sentimenti e giudizi contrastanti. Per alcuni era un despota sanguinario, per altri un grande condottiero.
Indipendentemente da ogni valutazione soggettiva è un fatto assodato che, resistendo a lungo all’invasore francese, egli difese il diritto dei popoli contro l’abuso di chi lo calpestava. Incarnando la lotta simbolica di Davide contro Golia, durante quegli anni difficili Samory Toure ricostruì e rinnovò l’antica identità dei mandingo, resuscitando lo spirito di un impero che nei secoli si era disintegrato e sopravviveva solo nelle antiche storie.
Come generale egli fu coraggioso e imprevedibile, capace di mettere in difficoltà un esercito che gli era molto superiore nell’armamento. Ma la sua vera forza fu la leadership politica che esercitò sul suo popolo.
Nonostante le sconfitte egli è ricordato come un resistente e un vincitore, un simbolo che oggi ispira un intero continente, una incarnazione delle virtù e dei valori africani. I diciassette anni di resistenza furono un tempo lungo quanto un’era, durante il quale intorno a Samory fu costruita la figura di un eroe archetipico e universale.
A partire da Morifindjan Diabate, il djeli personale che lo seguì anche in esilio, i griot mandingo tramandano e canteranno per sempre la sua storia. Quell’epica è conosciuta con il titolo di Keme Bourema, suo fratello minore, che ricambiava un dono con cento doni e che fu il migliore tra i suoi generali. Ecco in sintesi il racconto della sua vita.
Come accade per i grandi personaggi, la nascita di Samory Toure fu preannunciata dalla profezia dell’imminente arrivo di un bambino che sarebbe stato primo tra i faama, i sovrani malinkè. Samory nacque nel 1830 in un piccolo villaggio vicino a Sanankoro, in Mali, da una famiglia di commercianti. Crescendo si rivelò intelligente e audace, ma anche piuttosto rude e violento.
Lasciò la casa paterna molto presto, per darsi al commercio ambulante. Una notte, nei pressi della città di Kankan, gli apparvero in sogno due spiriti femminili che gli donarono un fucile e una profezia. “per 30 anni, 3 mesi e 3 giorni durerà il tuo potere sulla terra dei neri. Sarai straniero la mattina e colui che ospita gli stranieri la sera. Anche quando la guerra volgerà in tuo favore, non dovrai mai attaccare Kankan, Sikasso e Gbon. Al di fuori di questi tre luoghi potrai portare la guerra ovunque tu voglia.”
Si dice che a causa di quel sogno Samory decise di cambiare vita, e ben presto si trovò a combattere alla testa degli eserciti dei regni di Madina, Sanankoro e Kankan. Con il passare del tempo la sua popolarità di generale crebbe sempre più, non solo per la sua abilità in battaglia, ma soprattutto per la sua clemenza verso i vinti. I capi villaggio si sottomettevano volentieri, ben sapendo che in tal modo avrebbero ricevuto protezione e conservato il comando. Alla fine tutti i piccoli regni a est di Kankan, e persino l’impero tucouleur guidato dal figlio di El Hadji Omar si sottomisero al nuovo faama.
Sette secoli erano passati dai tempi di Soundjata Keita, e una nuova riunificazione aveva avuto inizio. Samory stabilì un’organizzazione solida fondata sul rispetto della struttura gerarchica, ma anche delle autonomie e delle tradizioni dei differenti regni ai quali, in cambio della protezione, venivano chiesti tributi e soldati. Ma tasse e bottini di guerra non erano sufficienti a sostenere le ingenti spese del grande esercito, così Samory, attingendo alla sua esperienza di commerciante, avviò con successo la produzione e l’esportazione di cola e caucciù e la raccolta di avorio e oro.
Non è facile farsi un’idea dell’impatto che ebbero il governo di Samory e le sue guerre sulle società dell’alto Niger. Oltre a fortificare il territorio e costituire un esercito moderno, egli affrontò e risolse problemi di amministrazione giudicati secondari da altri, e avviò un periodo di prosperità per il suo popolo. Per assicurare la coesione tra i suoi sudditi, che appartenevano a culture e tradizioni differenti, egli scelse di fondare il suo impero sull’islam, e quando fu al massimo della sua espansione territoriale rinunciò a farsi chiamare faama e si fregiò del titolo di almamy, lo stesso dei sovrani mussulmani della regione montuosa del Fouta Djalon.
A partire dal 1881 i francesi, che già occupavano il Senegal, decisero di aprire una via al commercio verso il Sudan, e avviarono la costruzione della ferrovia che avrebbe collegato l’Atlantico a Bamako. Ovviamente non si chiesero se le popolazioni dell’interno fossero d’accordo, né cercarono un accordo con Samory Toure, il sovrano che controllava quelle aspre regioni. Fu così che cominciò la guerra.
Il primo scontro sanguinoso con i francesi fu a Kita, dove Samory si trovò ad affrontare tattiche di combattimento a lui sconosciute. Ingenti perdite ci furono da entrambe le parti, e alla fine Samory perse la città. La vittoria rese i francesi talmente sicuri di loro da indurli a sottovalutare l’avversario. Negli scontri successivi infatti i guerrieri di Samory guidati da Keme Bourema inflissero pesanti sconfitte ai francesi, che subirono molte perdite e furono infine costretti a una precipitosa ritirata. Nonostante la superiorità militare dell’esercito francese, che possedeva anche una moderna artiglieria, le armate di Samory riuscirono nei quattro anni successivi a creare loro continue difficoltà e perdite, grazie alla tattica della guerriglia.
I francesi riuscirono comunque ad avanzare, e alla fine presero Bamako. Nel 1886 fu firmato il trattato di Bisandougou, con cui i francesi stabilivano il controllo della riva occidentale del fiume Niger e concedevano a Samory di ritirarsi a Sikasso. Ma Samory non riuscì mai a prendere Sikasso – che era ancora un regno indipendente – così come avevano predetto gli spiriti femminili molti anni prima. Il lungo assedio della città si concluse con la sua sconfitta, l’esercito si disperse e alcuni tra i regni alleati, approfittando di quel momento di debolezza, si ribellarono e proclamarono la loro indipendenza. Ma Samory radunò nuovamente i suoi soldati e tornò più feroce e determinato che mai. Migliaia furono i ribelli decapitati, anche tra coloro che all’ultimo provarono a negoziare la pace.
Ristabilita in parte la sua autorità, Samory si insediò nel Wassoulou, tra il Mali e la Guinea, da dove poteva controllare la valle del Niger. Nel 1889 i francesi violarono i trattati e ripresero ad avanzare verso sud-est. Samory tornò in guerra, ma nonostante l’esperienza e il valore dei suoi guerrieri fu costretto a una lenta ma inesorabile ritirata verso sud-est, verso la Costa d’Avorio e la Costa d’oro – attuale Ghana – nella foresta.
Nel 1897 Samory trattò con i francesi la cessione della città di Bourna in cambio dell’autorizzazione a ritornare a Sanankoro. Ma i “falchi” alla corte di Samory si ribellarono al trattato, attaccarono di sorpresa e massacrarono le truppe francesi mentre entravano trionfanti a Bourna.
La reazione dei francesi fu feroce. Rifugiatosi in una pianura nei pressi di Touba con circa centomila persone, masserizie, viveri e mandrie, Samory fu attaccato e spinto verso le montagne, ma la massa dei fuggitivi si muoveva troppo lentamente, e alla fine l’esercito mandingo fu sconfitto. Samory – che era fuggito – fu catturato a Geule (Gelemu) dall’ufficiale francese Gouraud, con il quale trattò la resa. Era il 29 settembre del 1898.
Venne deportato prima a Saint Louis, dove tentò il suicidio, e infine esiliato in Gabon, sull’isola di Ndjolé, assieme a sua moglie, suo figlio e all’amico djeli e consigliere Moryfindjan. Morì il 2 giugno del 1900 di polmonite. La sua tomba, nascosta dai cespugli, è introvabile.
DISCOGRAFIA SELEZIONATA
- Bembeya Jazz National: Regard sur le Passé (da Regard sur le Passé, Syliphone, 1970)
- Ensemble Instrumental du Mali: Keme Birama (Première anthologie de la musique malienne 4 – Bärenreiter Musicaphon, 1970) L’ensembe vinse la medaglia d’oro al Festival pan-africano di Algeri. Canta Nantenedie Kamissoko.
- Nantenedie Kamissoko & Batourou Seckou Kouyate: Keme Birama (Première anthologie de la musique malienne 1 – Le Mali des steppes et des savanes – Bärenreiter Musicaphon, 1970) versione alternativa alla precedente, ancora la stessa grande interprete in una versione intima, kora e voce.
- Sory Kandia Kouyate: Keme Bourema (L’épopée du Mandingue. Volume 2, Syliphone, 1973) L’interpretazione della voce dei Malinkè, Sory Kandia, il più grande tra tutti i griot del XX° secolo, è considerato uno standard assoluto. Voce, kora e balafon. Il brano è diviso in due parti.
- Balla et ses Balladins: Keme Burama (da Objectif Perfection, Syliphone,1980) Versione classica di un’altra celebre orchestra nazionale guineiana, con gli splendidi assoli di Sekou le docteur Diabate alla chitarra elettrica.
- Amazones de Guinée: Loukhoure (da Au Couer de Paris, Syliphone, 1983) Interpretazione acustica delle amazones de Guinée. La musica è quella di Keme Bourema.
- El Hadji Djeli Sory Kouyate: Keme Bourama (da Anthologie du Balafon Mandingue vol. 2, Buda Musique, 1992) L’interpretazione del gran maestro del balafon guineiano.
- Ensemble Mandenkalou: Keme Bourama (da Mandenkalou vol. 1, Syllart/Melodie, 2004) splendida versione tradizionale con i migliori interpreti viventi di Mali e Guinea: cantano Kassemady Diabate, Sekouba Bambino Diabate, Kemo Konde e Bako Dagnon
- Ensemble Afrocubism: Keme Bourana (da Afrocubism, World Circuit, 2010. LP e Mp3 Bonus track) versione ibrida suonata da musicisti cubani e maliani tra cui Djelimady Tounkara e Eliades Ochoa alla chitarra, Toumani Diabate alla kora, Bassekou Kouyate al n’goni, Lassana Diabate al balafon, Kasse Mady Diabate alla voce, Jorge Maturell e Baba Sissoko alle percussioni, José Angel Martinez al contrabbasso e il Grupo Patria
Una risposta a "L’Africa che canta storie"