di Marco Zanotti
(dal libretto di sala, Ravenna Festival, 9 giugno 2013)
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“L’afrobeat è la moderna musica classica africana”. Con questa citazione dell’attivista politico e artista iconoclasta nigeriano Fela Anikulapo Kuti, la Classica Orchestra Afrobeat ha battezzato qualche anno fa il suo primo lavoro di ricerca e di arrangiamento, che si è concretizzato nell’album di debutto discografico Shrine on you: Fela goes classical (Sidecar/Brutture Moderne, 2011). L’operazione poteva sembrare una di quelle a cui ormai siamo piuttosto abituati, ovvero la riproposizione in chiave classica europea di uno stile musicale altro. A ben vedere, il concetto di orchestrazione di Fela, a sua volta una elaborazione delle voci dei tamburi africani, e un certo tipo di costruzione musicale antica/classica europea condividono molti aspetti stilistici nonchè di concetto.
La sovrapposizione di linee melodiche e ritmiche in un contrappunto di voci che hanno come baricentro un basso e come solista uno strumento oppure un piccolo ensemble di fiati ci rimanda facilmente da un lato alla polifonia rinascimentale e dall’altro ai concerti grossi del ‘600, dove il concertino dei solisti spiccava sul corpo dell’orchestra e sul basso continuo.La poliritmia africana, in particolare quella delle tradizioni dei gruppi etnici dell’Africa Occidentale, concepisce l’architettura sonora come un fluire di cellule melodiche e ritmiche che si incastrano a spirale l’una nell’altra come un puzzle. La ripetizione di queste costruzioni funge da sostegno e propulsore sia per l’esecuzione dei temi che per l’esposizione dei canti. D’altra parte, come in molte tradizioni musicali di matrice popolare, è fondamentale l’effetto di astrazione che tale ripetizione induce nei sensi dell’ascoltatore, avvicinandolo a realtà eteree che a seconda delle culture vengono declinate attraverso le religioni, l’animismo o, più genericamente, la spiritualità. L’improvvisazione gioca un ruolo importante proprio alla luce di questa ricerca di qualcosa che non è fisicamente presente, diviene l’interprete dell’hic et nunc, il pilota del veicolo che porterà le menti ed i corpi altrove. La pratica improvvisativa, nella musica occidentale, era massicciamente presente (e forse costituiva la parte dominante dell’esecuzione musicale) nell’epoca che va dalle origini alla codifica gregoriana della musica sacra. Per fare un esempio più recente, molti preludi, toccate, fantasie, fughe dell’epoca barocca sono probabilmente improvvisazioni trascritte successivamente su partitura. Nella tradizione jazzistica, le partiture vengono definitivamente messe in secondo piano (spesso sono solo canovacci di accordi e melodie principali, oppure non esistono proprio) e quello che dona il senso ad una esecuzione è la sensibilità del musicista che improvvisa la sua “creazione estemporanea”. Proprio questo concetto affonda le sue radici nella pratica musicale e interpretativa di molte culture africane.
L’origine della musica africana si perde nella notte dei tempi e l’assenza di testimonianze scritte, quindi partiture o appunti, ne rende impossibile la definizione. Il sistema stesso di conservazione e tramandamento per via orale della storia e della cultura dei popoli dell’Africa non ci consente di indagare con precisione sul loro passato. La figura del griot è emblematica e fondamentale per addentrarci in questo universo [leggi “L’Africa che canta storie” di Giulio Mario Rampelli]. Come secondo capitolo di un progetto di interpretazione della musica africana tramite gli strumenti e gli stilemi della tradizione musicale europea, la Classica Orchestra Afrobeat sposta il focus della ricerca dall’afrobeat di Fela Kuti alla tradizione musicale del vasto popolo mandingo che, prima ancora di fondare l’Impero del Mali (circa 1235-1645) viveva nella regione tra l’attuale Guinea settentrionale e il Mali meridionale. Un popolo che nel corso dei secoli ha sperimentato sulla propria pelle fasti e dolori, si è disperso e rigenerato più volte, contaminandosi con altri gruppi etnici di zone limitrofe, fino alla diaspora americana della tratta degli schiavi e al colonialismo (geografico, politico, culturale ed economico) degli ultimi 150 anni. Questi due avvenimenti in particolare hanno forzosamente creato nuova cultura, un mosaico di intrecci tra popoli e culture (quella euroamericana e quella africana) religioni, mestieri ed arti. Gli anni ’60 del secolo scorso, quelli dell’indipendenza politica per la maggior parte degli stati dell’Africa Occidentale, rappresentano un fermento di produzione artistica e contaminazione culturale. L’estetica di moda in quegli anni, a cui la musica dei mandingo non è affatto immune, compie in realtà un bizzarro percorso di andata e ritorno: si pensi alla febbre mondiale per i ritmi caraibici, ai richiami del black power statunitense o al jazz. Musiche già ibride nella loro essenza, in quanto risultato del sincretismo afroamericano e, nella maggior parte dei casi, nemmeno di origine mandinga (più massiccia è stata la deportazione e quindi l’apporto in termini di cultura dei gruppi etnici yoruba e bantù, ad esempio).
Nonostante questa confusione, il popolo mandingo mantiene una certa fedeltà ai cardini della propria tradizione musicale. Il programma culturale governativo denominato “Authenticité” promosso da Sekou Toure, primo presidente della Guinea Conakry è l’emblema di questa cura paterna nei confronti della propria storia, che in pochi anni ha finito per contagiare anche gli altri nuovi stati vicini.
Prendere in mano un’opera come Regard sur le Passè (vedi scheda dello spettacolo) significa innanzitutto comprendere alcune cose. Per prima la necessità di autoaffermazione di un popolo la cui storia recente era stata brutalmente maltrattata: la Bembeya Jazz National, una delle più capaci e prolifiche tra le orchestra africane di tutti i tempi, sentiva il bisogno impellente di esprimere questa voglia di indipendenza con entusiasmo e convinzione. La divisione del mappamondo in due sfere di influenza, creata dalla guerra fredda che in quegli anni era più che mai d’attualità, ha facilitato l’importazione di quelle mode che si fonderanno con la tradizione più autentica, vedi ritmi cubani o nord-americani. Ma soprattutto: Regard sur le passè è un’orchestrazione composta su di un tema popolare che rimanda all’ultimo impero a maggioranza malinke, quello costituitosi nella regione del Wassoulou e capitanato da Samory Toure. Decontestualizzato dalla esecuzione della Bembeya Jazz National, il Keme Bourema (questo è il nome del canto tradizionale) è un pezzo di storia diremmo ora di dominio comune all’interno del vasto popolo mandingo (nelle sue varietà etniche malinkè, bambara, mandinka e djoula). Uno standard, per usare un parallelismo con la terminologia del jazz. Il Keme Bourema, così come altri canti tradizionali malinke, racconta una storia, ovvero un tassello della biblioteca popolare che i griot nella loro funzione sociale rappresentano. E’ un canto di gloria e di speranza che narra la vita, le battaglie e la morte di Samory Toure e del suo popolo. E’ un epica, se vogliamo, nell’accezione occidentale del termine, così come lo sono l’Odissea di Omero, l’Orlando Furioso dell’Ariosto o il Guglielmo Tell di Rossini.
Il compito primario dell’epica, intesa come genere letterario (quindi occidentale) era essenzialmente civile: fornire alla comunità gli esempi giusti da seguire. Ne sono un valido esempio le gesta degli eroi in guerra che esaltano valori come il coraggio, la lealtà, la forza d’animo, lo spirito di sacrificio, qualità indispensabili per la costruzione di un popolo coeso e con un forte senso dello stato. I poemi epici, per il loro carattere “popolare” ed ispirato spesso al mito, sono il veicolo ideale per diffondere ed affermare queste idee nella mente dei cittadini, ma questo carattere popolare non consiste tuttavia solo nel fatto che gli episodi si svolgano su un asse narrativo capace di coinvolgere il pubblico, ma soprattutto nel fatto che queste storie fossero inizialmente tramandate oralmente e quindi facenti parte di una coscienza collettiva. Rivelatore di questo processo può essere la norma, comune a tutti i poemi epici, di tingere di un’aura mitologica gli eventi del passato, procedura che ogni narratore è portato a fare interpretando e modificando parti della trama a seconda delle sue inclinazioni o di quelle degli ascoltatori. Allo stesso modo i griot africani tramandano le loro storie di generazione in generazione aggiungendo o togliendo particolari, con quell’enfasi mitologica che le rende affascinanti e in un certo senso pedagogiche. Il liuto africano nelle sue varie forme (n’goni, donso n’goni, ecc) è uno dei più antichi strumenti riservati ai griot per “raccontare” le proprie storie. La sua funzione pratica è la stessa che aveva la viola dei trovatori o la fisarmonica dei più recenti cantastorie popolari. Diversi nell’utilizzo ma molto simili nell’articolazione del suono e nel fraseggio sono invece due strumenti cardine della musica mandinga da un lato e europea dall’altro: la kora ed il clavicembalo. La prima è una specie di arpa a 21 corde, costruita a partire dal guscio di un’enorme zucca. E’ riservata ad alcuni lignaggi di griot, quelli che servono i re e nasce come strumento probabilmente attorno al 1600 (?). In quel periodo in Europa il clavicembalo viene utilizzato diffusamente nella musica colta. Allo stesso modo della kora, può essere solista così come accompagnamento (basso continuo).
Le corde di entrambi vengono pizzicate e il fatto di poterli suonare con ambedue le mani li rende intrinsecamente polifonici. Detto questo, chiaramente stiamo avvicinando due strumenti per storia ed evoluzione, molto distanti tra loro ma l’operazione che la Classica Orchestra Afrobeat compie con il proprio adattamento di Regard sur le Passè si può dire che prenda il via proprio da questo accostamento azzardato eppure così naturale. L’utilizzo della viola da gamba a fianco al clavicembalo induce inevitabilmente a pensare alla musica barocca e di fatto qualche affinità tra questo periodo musicale e l’opera africana in questione c’è. Barocco in lingua antica portoghese significa irregolare, mutevole, così come lo è l’infinito nella sua varietà di forme e di interpretazioni. Siamo negli anni della Controriforma ma anche di Galileo e Newton e l’uomo di fronte all’infinito sente la necessità di esprimere il senso di meraviglia, vuole sorprendere, suscitare emozioni. Per farlo viene introdotta in musica la cosiddetta teoria degli affetti, secondo la quale la scrittura musicale deve suscitare nell’ascoltatore vari stati d’animo (tenerezza, eroismo, epicità, ecc) a seconda del messaggio. La stessa cosa accade nell’epica africana del Keme Bourema ed in particolare nella costruzione orchestrale di Regard sur le passè, dove i due atti originali contemperano momenti emotivi diversi che vanno dalla sofferenza alla paura, dalla esultanza per la vittoria alla disperazione per la sconfitta. Nell’affrontare questa opera abbiamo dato un nome ad ogni sua sezione, ridefinito la struttura generale in base al nostro arrangiamento (a cura di Valeria Montanari e del sottoscritto) e assegnato perfino dei colori e delle parole chiave per evocare ogni momento della storia. Il risultato è un concerto diviso in tre movimenti, nei quali si susseguono in ordine le sezioni: Strumentale pomposo, Preambolo dolce, Inno solenne, Presentazione fiorita, Gioventù frizzante, Keme Bourema spavaldo, Battaglia concitata, Vittoria spensierata, Notte evocativa, Vittoria allegra, Notte distesa, Alba di speranza, Pericolo incerto, Cattura fatalista, Allegro festoso. Quasi ogni sezione prevede una parte cantata o recitata ed una parte strumentale, allo stesso modo in cui l’alternanza di arie cantate e recitativi (accompagnati solo dal clavicembalo o da tutta l’orchestra) caratterizzava il melodramma dell’epoca barocca e molte delle opere dei compositori dal ‘600 in poi.
Come nell’Orfeo di Monteverdi i ritornelli orchestrali si rincorrono come echi vaganti tra strofa e strofa, inducono l’orchestra a dialogare nel dramma con una sua propria voce triste o affettuosa, che asseconda e dispone alla effusione del canto. Come nella teoria degli affetti, l’orchestra è trattata con discernimento e senso del colore, così il timbro del flauto e dell’oboe riprendono alcuni temi del canto, alcune improvvisazioni di clarinetto, fagotto o violoncello rintronano per sottolineare il fermento o il pericolo, mentre la sezione degli archi rieccheggia sinuosa e sensuale nella celebrazione della vittoria. Le percussioni infine si ritagliano uno spazio tutto loro per evocare le battaglie più cruente.
Ascoltare un griot mentre racconta una storia è un’esperienza totale che coinvolge la sfera più intima di noi stessi. Percepiamo che si tratta di musica e parole antiche, con uno spessore nitido. Per questo non potevamo che affidare a due griot autentici e immensi la parte cantata e quella recitata (che spesso si scambiano e si fondono).
Un canto didascalico, recitato, evocativo che, sempre forzando il parallelismo con la musica europea, ci riporta indietro fino al “recitar cantando”,introdotto dalla Camerata de’ Bardi a Firenze nel XVI secolo, La composizione della Bembeya affianca al canto tradizionale in lingua malinke un recitato in francese, il quale funge da traduzione di ciò che sta succedendo nel canto e nella musica. Ho scelto di lasciare il testo in francese per fedeltà all’originale e per rispettare il carattere discorsivo della storia. Ci sono alcuni momenti solisti che nell’orchestra guineana erano affidati a chitarra elettrica, balafon o tromba, noi abbiamo sostituito questi ultimi con il violino, il clarinetto e persino con alcuni strumenti della tradizione popolare italiana come l’ocarina, il piffero e la fisarmonica. L’affiancamento di strumenti “colti” e popolari rappresenta fin dalla nascita della Classica Orchestra Afrobeat una sua caratteristica. La filologia ci interessa nei contenuti ma non nella forma, così come le orchestre africane degli anni ’60 e ’70 ci insegnano. Per questo, sul palco trovano posto anche una batteria (con tamburi africani) e le congas della tradizione musicale afrocubana a fianco ad archi, clavicembalo, legni e strumenti popolari.
Da ultimo, abbiamo voluto inserire tra un movimento e l’altro due brevi composizioni di due autori italiani, entrambi vissuti tra il ‘500 ed il ‘600, a mo’ di sinfonia lirica, ovvero di intermezzo strumentale che introduce il movimento seguente. La prima è una sinfonia di Salomone Rossi, detto l’Ebreo, mantovano vissuto alla corte dei Gonzaga. Eseguita da un quartetto composto da violino, viola da gamba, violoncello ed oboe, questa sinfonia si situa nel periodo del racconto che narra la gioventù di Samory Toure, mentre egli sta ponendo le basi per la costruzione dell’impero. L’atmosfera è sbarazzina e speranzosa. La passacalle di Andrea Falconieri, compositore napoletano vissuto tra l’Italia e la Spagna, è un componimento per sua stessa natura popolare (da passa calle, in spagnolo: attraversa la strada, che si eseguiva in mezzo alla strada). Giunge tra il secondo ed il terzo movimento, dopo che Samory Toure ha collezionato numerose vittorie, tra cui quella storica e cruenta di Woyowayanko. L’esercito, comandato da suo fratello Keme Bourema (da cui il nome del canto!) è rientrato nell’accampamento e si gode la meritata vittoria.
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