Lunedì 29 febbraio, 2011.
Ieri sera Oghene Kologbo, lo storico chitarrista che accompagnò Fela sin dai suoi Africa 70, ha suonato in concerto al Bronson di Madonna dell’Albero (RA) insieme alla sua band afro-europea World Squad (Belgio, Togo, Italia e ovviamente Nigeria). Manco a dirlo, la serata si è protratta fino alle ore piccole… sul palco, nei camerini, nel parcheggio poi al bar, quindi in auto, nel piazzale dell’hotel, nella hall… Una immagine che ricordo su tutte è quella dell’inarrestabile folletto mentre spalanca la sua valigia e sparge ogni ben di dio sul pavimento di fronte alla reception dell’albergo di via Romea, a due passi dalla Basilica di Sant’Apolinare in Classe: vestiti accartocciati, pedalini della chitarra, corde, sigarette sparse, fogli, una mela, Kologbo gesticola a suo modo e non smette un secondo di parlare, a voce alta nonostante l’ora tarda. Discute di qualsiasi cosa con chiunque gli capiti di fronte, oppure bofonchia tra sè e sè come se stesse parlando a qualcuno dentro di lui. Mi diverto ad osservare il personale del servizio notturno dell’Hotel in evidente difficoltà, come tentando di domare un toro impazzito scaraventato dentro la hall. Non mi stupisco che gli altri membri della band si premurino con cura di lasciare a lui la camera singola (!).
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Con due caffé trangugiati di corsa, io e Luchino recuperiamo il piccolo Kologbo proprio lì, nel parcheggio di fronte all’Hotel. Sono appena le 9.30 di mattina e lui ci sta aspettando già scattante con chissà quali faccende per la testa. Ci saluta con un abbraccio e accendendo una grossa sigaretta entra in auto. Nel tragitto per arrivare allo studio gli faccio ascoltare i premix dei brani, non solo Follow Follow ma anche altri, un po’ a caso: Water No Get Enemy, No Agreement, Shenshema. Nel turbine di parole che ci diciamo (è lunedì mattina… okay, la settimana è cominciata!) mi racconta che quando entrò a Kalakuta, la comune di Fela nei sobborghi di Lagos, era poco più che un ragazzino e per potervi restare faceva le pulizie o lavava i piatti. Funzionava così: ognuno doveva prestare il proprio contributo per mantenere l’enorme casa e le numerose decine di artisti, vagabondi, studenti e ospiti che lì vivevano. Nel frattempo studiava il basso e suonicchiava le percussioni, sebbene la sua mansione ufficiale ben presto divenne quella di “human tape recorder”, almeno fino a quando non entrò stabilmente nella band come tenor guitar. Cos’è lo human tape recorder? Beh, per quanto bizzarro possa sembrare, si trattava di memorizzare le melodie o le idee musicali del Chief Priest (aka Fela Anikulapo Kuti) ogni qual volta a lui venissero in mente, per poi ripeterle alla band l’indomani durante le prove pomeridiane. Fela aveva deciso di abbandonare la scrittura e le partiture dopo il diploma al Trinity College di Londra: la sua era musica africana al 100% e per questo doveva viaggiare in forma orale.
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Fatto sta che Kologbo conosce e si ricorda tuttora perfettamente ogni linea ritmica e melodica di ogni brano dell’immenso repertorio di Fela, praticamente una enciclopedia vivente dell’afrobeat! Tant’è che non tarda molto a trovare nel nostro arrangiamento una nota diversa da quella originale! E’ un sol che il nostro contrabbasso suona sull’ottava alta, mentre in Mr Follow Follow originale è sull’ottava bassa. Ci racconta che “allo Shrine la gente sapeva a memoria e cantava le singole parti di tutti gli strumenti, non solo i temi dei fiati ma anche la linea di basso, delle due chitarre, dell’organo… si creava una poliritmia naturale in tutto il locale, sopra e sotto al palco” Preoccupato per l’appunto gli chiedo: “ma il resto? come ti sembra?” “E’ PERFETTO!!! non ho mai sentito una trascrizione così fedele!” E giù di complimenti, al che mi tranquillizzo e comincio ad entrare nei dettagli della registrazione, anche perché nel frattempo ci siamo fermati per un altro caffé e ormai siamo in studio.
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La giornata è uggiosa, di quelle da chiudersi in casa sul divano ma noi lavoriamo sodo ugualmente e con piacere constato che Kologbo ha preso la cosa sul serio: gli scrivo su un foglio il testo preciso (quello no, non se lo ricorda a memoria) e se lo ripassa nella sala del caffè, tentando le difficili evoluzioni del canto di Fela: My brothers, make you no follow book-o / Look am and go your way. In regia Checco controlla la tonalità e in sala ripresa Duna prova un paio di microfoni più adatti alla voce gonfia e graffiante di O.K.. Gli regalo una bottiglia di whisky e gli faccio: “man, c’è qualcosa che vorresti dire, come introduzione al brano?” Non se lo fa ripetere e sul riff iniziale di violino e viola ruggisce: “This is to remind you that Afrobeat, from my Godfather Fela Anikulapo Kuti, will never diiiiie!!”
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Inutile dirlo, la registrazione è esaltante. Passiamo direttamente a Water no get enemy poiché Kologbo scalpita e non vede l’ora di sfoderare la sua tenor guitar. Qui mi emoziono di nuovo: in un batter d’occhio le due linee di chitarra della hit di Fela, proprio loro, sì sono proprio quelle, dal vivo sul nostro arrangiamento! Da qui in poi nulla era stato previsto ma è quello che speravo accadesse: un musicista (oh, mestiere incantato!) che viene felicemente vinto dalla sua arte e ad essa si concede incondizionatamente. Dopo le chitarre chiede se può fare qualcos’altro gia che c’é… ormai è carichissimo! Abbassiamo le tonalità delle congas finché non arrivano al suono panciuto viscerale dei tamburi di Fela e pigiamo record un’altra volta. Voilà. Buona la prima, ovviamente e guai a chi edita qualcosa. Sulle percussioni Kologbo sembra posseduto, danza, ride, catalizza le energie e le spruzza tutt’attorno come una trottola.
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Finisce che quando il ciclone si placa e finalmente decidiamo di andare a mangiare qualcosa, l’orologio segna le 4 di pomeriggio e a Russi, un lunedì qualunque di febbraio, i ristoranti e le trattorie sono tutti chiusi. Ci fiondiamo nel chiosco dei nostri amici – piadina doc – dove, tra una birra e un altro cicchetto l’inarrestabile cinquatreenne di Lagos si lascia andare alle memorie di Kalakuta: i concerti allo Shrine, le abitudini del Black President, i militari e l’incendio. Osservo al di fuori del piccolo porticato che profuma intensamente di Romagna la pioggia che scende monotona sui tetti delle case.
Marco Zanotti